Streetstyles, subculture e supermercato dello stile
Bon ton negli anni Cinquanta,
Hippy negli anni Sessanta,
funk negli anni Settanta, glam negli Ottanta,
grunge nei Novanta
fino al metrosexual e hypster per accompagnare la svolta del Millennio
per passare poi al gender fluid che va per la maggiore di questi tempi.
Di cosa stiamo parlando?
Dello stile tipico di un’epoca, di solito associato a un gruppo, a un luogo, a una subcultura.
Dicesi subcultura: cultura che si oppone allo stile dominante, per mostrare un dissenso rispetto alla cultura “ufficiale”, quella veicolata dai mass media e dal sistema moda.
Ma perchè negli ultimi anni è così difficile parlare di stile?
Si parla di “supermarket degli stili” indicando una contemporaneità in cui non si delinea uno stile mainstream e quindi è di conseguenza difficile definire anche gli offsiders, quelli che si oppongono alla cultura ufficiale.
L’antropologo inglese Ted Polhemus ha a lungo studiato la materia, e nel 1994 ha pubblicato “Streetstyles: From sidewalks to catwalks”, catalogo di una storica mostra al Victoria and Albert Museum di Londra. L’origine degli streetstyles, dai marciapiedi alle passerelle.
La moda si diffonde secondo un meccanismo che lo studioso chiama “Bubble Up”.
Non più uno “sgocciolamento verso il basso” o TRICKLE DOWN (ne parleremo in una delle prossime pillole), ma un ribollire dal basso che determina l’affermarsi o meno di una tendenza.
Attiva i cookies